Ode all'avverbio

Stephen King, nella sua autobiografia "On Writing", scrisse: "la strada per l'inferno è lastricata di avverbi."
Leggerlo, mi ha fatto particolarmente male.
Essendo io innegabilmente un amante degli avverbi, ho trovato assolutamente fuori luogo questa deprimente presa di posizione. Gli avverbi sono indiscutibilmente la polvere di fata che regala la magia a una frase irrimediabilmente scarsa di peso specifico.
Per imprimere indissolubilmente nella mente del lettore la grandezza dell'argomento, l'avverbio è il mezzo chiaramente più utile, semplice e clamorosamente più adatto che si possa utilizzare.
Questa mania del togliere, dello scarnificare, dell'epurare incondizionatamente uno scritto dal suo condimento, è ormai prassi globalmente diffusa.
"Metti da parte quei paroloni che finiscono con -mente e che non aggiungono niente a quello che devi dire!"
"Ok", rispondi docilmente, "non aggiungono indefessamente nulla ciò che ho da dire, ma lo rendono indiscutibilmente più interessante".
E allora caccia all'avverbio, nuova crociata violentemente condotta da chi si professa paladino della lingua italiana.
Solamente che, chi inizia inderogabilmente a usare avverbi, smetterà unicamente quando sarà sotto terra.

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